Fernando Pessoa, in memoria.

di Eleonora Rimolo

pessoaPenso alle lacrime di Ophèlia Queiroz in quel lontano 30 novembre del 1935, quando l’ uomo che aveva amato per una vita intera, senza sottrarsi mai alle sofferenze e alle privazioni di un legame profondo con un geniale schizofrenico, esalò l’ ultimo respiro, chiedendole “De-me os meus óculos”[1]. Probabilmente ne avrà versata una soltanto di lacrima per la morte del suo Fernandinho, poiché durante gli anni passati al suo fianco avrebbe potuto riempirci non solo il Tago, ma tutto l’ Oceano Atlantico, con i suoi pianti d’ amore.

Fernando Pessoa morì di cirrosi epatica a soli 47 anni, nella sua Lisbona, dopo una vita sommessa, vissuta tutta all’ ombra del sogno, dell’ illusione di esso, della possibilità di poter essere una moltitudine di poeti, senza però riuscire a distinguere bene se stesso tra questi a causa di una tendenza straordinariamente fruttifera in letteratura – ma terribilmente nefasta nella vita esteriore – alla spersonalizzazione e alla dissimulazione.  Questo stato psichico perennemente alterato gli permise di creare ben cinque eteronimi[2]: Álvaro de Campos, l’ ingegnere navale futurista, Alberto Caeiro, il poeta-filosofo irritato dalla metafisica, Antonio Mora, il folle fondatore del neopaganesimo, Ricardo Reis, il medico latinista e monarchico, e Bernando Soares, (un semi- eteronimo, poiché con Fernando ebbe molto in comune, a partire dal mestiere e passando per lo stile) protagonista del “Livro do desassossego”.

La sua ultima frase la scrisse nella lingua in cui fu educato, l’inglese: “I know not what tomorrow will bring” (Non so cosa porterà il domani). Nel dubbio del futuro immediato, durante i suoi ultimi giorni Fernando invocò le anime dei suoi eteronimi e chiese gli occhiali, probabilmente per compiere un ultimo, estremo tentativo di vedersi, di ritrovarsi. Forse strinse la mano di Ophèlia, pentendosi di non averlo fatto per lungo tempo a causa di una irresistibile voglia di occuparsi di una metafisica irraggiungibile per l’ uomo, col cuore incastrato in una malattia dalla quale avrebbe potuto trovare sollievo soltanto attraverso la pratica ovvia dell’ amore, spesso invece tenuto ai margini di una vita comunque mesta, apparentemente squallida (Pessoa lavorava come corrispondente estero, ossia traduceva la corrispondenza commerciale, un banale lavoro d’ ufficio). Sicuramente ripensò ai giorni in cui dalla sua mente e dalla sua penna vennero fuori i suoi compagni di vita e di poesia («Con una tale mancanza di gente coesistibile come c’è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità, se non inventare i suoi amici, o quanto meno, i suoi compagni di spirito?»), forse gli venne in mente il paradosso per cui “Pessoa” in portoghese significa “persona”, mentre “Personne” in francese significa “nessuno”, con un buffo gioco di parole che Ophélia poi utilizzò per creare un ulteriore eteronimo del suo amato, Ferdinand Personne. Perché in fondo Pessoa è stato molto più di una persona, ma poco meno di nessuno. Tra la moltitudine e il nulla, opere poetiche di spessore inimitabile, pagine di una filosofia brillante, frammenti di un monologo interiore lungo quanto un romanzo che ti scava nell’ anima innumerevoli conche nelle quali va a stabilirsi la vischiosa inquietudine e il tedio denso che attanaglia tutti noi lungo il corso di questa breve, illogica esistenza.

« Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia,

non c’è niente di più semplice.

Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.

Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei. »

Pessoa


 

[1] “Dammi gli occhiali”.

[2] L’eteronimo, a differenza dello pseudonimo, coesiste con l’autore, formandone una sorta di estensione del carattere, vivendo, apparentemente, di vita propria, con uno stile e una personalità spesso diversi da quello dell’ortonimo.

 

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Eleonora Rimolo

Sono nata a Salerno il 18/12/1991 e vivo a Nocera Inferiore. Sono Laureata in Lettere Classiche, iscritta alla Magistrale in Filologia Moderna. Ho pubblicato il romanzo "Amare le parole" (Lite Editions, 2013) e la silloge poetica "Dell’assenza e della presenza" (Matisklo 2013).

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